MINGO, NICOLA
MY SIXTIES IN JAZZ
Barcode: 8032050023298 / Cat: AFMCD289 / 1 CD / Label: ALFAMUSIC
«Un concetto che ha segnato gran parte del Novecento musicale è quello di Neoclassicismo, cioè del recupero di forme, procedure, melodie del passato da trasformare nel presente attraverso nuove tecniche, concezioni ritmiche e armoniche, strumentazione. Tra le linee considerate avanguardistiche e quelli che venivano considerati ripiegamenti neoclassici c’è stata spesso, come si può immaginare, aperta polemica, simile a quella presente in gran parte della storia del jazz tra chi veniva considerato innovatore e chi conservatore della musica del passato. In realtà, nel caso del jazz la diatriba ha quasi sempre assunto, almeno sino a pochi decenni fa, toni dilettanteschi, da disputa amatoriale, non certo paragonabili ai livelli di riflessione dei teorici e dei musicisti di ambito eurocolto, limitandosi all’utilizzo dell’odiato prefisso “neo”, o dell’ancora più offensivo termine “revival”, termini che per una musica colta quale è il jazz suonano decisamente riduttivi. Mi chiedo, oggi, perché una serie di recuperi e trasformazioni di stili e stilemi del passato non siano stati considerati come esempi di neoclassicismo jazzistico, visto che in molti casi alla vecchia bottiglia è stato aggiunto del vino nuovo, come indicava nel titolo un famoso album di Gil Evans. In fondo Stravinskij nel suo Pulcinella non ripeteva pedissequamente Pergolesi e le arie della musica popolare napoletana, ma le portava nel suo mondo ritmico e armonico, nei suoi colori timbrici, dando loro non una nuova vita, quanto una vita “diversa” della quale erano direttamente lo spunto. Se applichiamo questa concezione, facendo le debite proporzioni, alla musica che ci propone il chitarrista napoletano Nicola Mingo nell’album con cui festeggia i suoi sessant’anni, potremmo scoprire che la sua adesione allo stile Hard-Bop è più una scelta di uno stilema del passato da reinventare nel presente che una sua riproduzione pedissequa. Lo dicono le armonie, generalmente più fitte di quelle aperte e modaleggianti dell’epoca in cui questo stile si è affermato, così come la dimensione ritmica, soprattutto nel rapporto contrabbasso-batteria, evidenzia una linearità quasi “classica” nei suoi sviluppi, come del resto il pianismo preciso e meditato e, ovviamente, quel linguaggio “puntato”, a frasi lunghe e articolate, che da sempre contraddistingue la poetica di Mingo. Insomma, tutto è condotto all’interno di un quadro troppo preciso e peculiare per poter essere confuso con l’energetica e a volta frastagliata proposta dei gruppi di fine anni cinquanta e anni sessanta, tesi verso una proposta al calor bianco, dalle forme estremamente funzionali alla performance e a un dialogo collettivo intenso e lontano dall’olimpica relazione che esiste tra i musicisti di questo album. La scelta dei partner rivela quindi attenzione e ricerca di funzionalità, e da qui viene la scelta di musicisti che tutti conosciamo per la loro conoscenza del linguaggio e il rigore espressivo. Anche le composizioni, tolti quattro omaggi a momenti diversi della galassia bop, riflettono questa ricerca di uno sguardo sereno, seppur appassionato, a un mondo stilisticamente importante ma da considerare, appunto, come uno spunto, uno stimolo, una fonte di idee che devono essere riportate alla concezione e al modo di sentire di oggi. La chitarra di Mingo privilegia il suono caldo che può persino ricordare Wes Montgomery, complice l’uso sporadico di qualche frase a “ottave”, oltre a ricorrere costantemente a quella cellula blues che sta alla base di questa musica. In sostanza, uno sguardo al passato che, personalmente, mi ricorda uno dei possibili esempi di un neoclassicismo jazzistico ancora tutto da teorizzare.» Maurizio Franco